“Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi.”
Così il nuovo Presidente del Consiglio Mario Draghi si è espresso mercoledì 17 febbraio in Senato, ragionando sulle questioni legate al lavoro e alle attività economiche. Si tratta di una riflessione che merita di essere approfondita in modo accurato, senza pregiudizi. Ed è quello che ora vi propongo di fare insieme.
Metto subito le mani avanti: io mi occupo di Risorse Umane e non mi importa nulla di addentrarmi in valutazioni di stampo politico oppure di fare la sostenitrice o la detrattrice di questo e quel governo-partito-personaggio politico-movimento. Ciò che mi interessa, invece, e anche parecchio, è approfondire il focus che l’ex Presidente della Banca Centrale Europea ha proposto nel suo lungo discorso a Palazzo Madama in merito alle condizioni di aziende e lavoratori.
Voglio soffermarmi su un passaggio in particolare, quello in cui Draghi ha sottolineato come le aziende siano oggi chiamate a un nuovo tipo di sforzo, ovvero quello di entrare in una fase di cambiamento, necessario, fondamentale. Ha ragione? Davvero esiste oggi la necessità di cambiare, anche “radicalmente”? O si tratta solo di un escamotage per scaricare sulle attività commerciali le responsabilità politiche? Ve lo anticipo, per me è la prima.
”Abbiamo sempre fatto così” è morto
EDIZIONE STRAORDINARIA: IL MONDO CAMBIA! E che vi piaccia o meno, è sempre stato così, ben prima dell’esplosione della pandemia. Ben prima che l’uomo inventasse la ruota. Eppure, non è raro imbattersi in aziendalisti in fissa con “il nostro metodo”, “le nostre tradizioni”, “i nostri sistemi rodati”. Nella mia carriera, ho avuto spesso a che fare con proprietari di attività commerciali ostinatamente decisi a preservare abitudini anacronistiche, ufficialmente perché convinti dell’efficienza di un certo modo di fare e di ragionare, ma in realtà – opinione personale – perché spaventati dall’idea di affrontare i cambiamenti.
Non riesco a pensare a nulla di più dannoso: la società si modifica e, insieme ad essa, cambiano le logiche di mercato, i bisogni, le abitudini e i desideri degli utenti. Non esistono business che sfuggono a questa logica. Ciò nonostante, la ritrosia dei più conservatori aziendalisti nel mettere mano al proprio sistema produttivo non è una novità di oggi. Né di ieri. Di solito, questi sono soliti trincerarsi dietro argomentazioni del tipo: “Questa attività è in piedi da X anni ed è sempre andata bene”, come se i successi del passato fossero una garanzia per il futuro.
Inutile dirvi che non è così: “Abbiamo sempre fatto in questo modo” è un’asserzione priva di basi strategiche, di programmaticità e di spirito imprenditoriale.
Così è, se vi pare. E anche se non vi pare
E oggi più che mai, il cambiamento è l’unica costante di cui disponiamo, sia che si parli di aziende e sia che si parli di lavoratori. È inutile far finta di niente, il Covid sta accelerando alcune dinamiche e ne sta innescando di nuove: il lavoro da remoto o il commercio elettronico, per fare due esempi particolarmente in voga, sono migliorie che attendevano alla finestra già da tempo e che il lockdown e le restrizioni stanno inevitabilmente facilitando. Il mondo del lavoro e quello del commercio devono accettare che non esiste una via alternativa, non esiste un modo per ritardare l’inevitabile.
Ciò che possiamo fare noi, invece, è comprendere che il cambiamento non è una minaccia, ma un’opportunità.
Davvero è così complicato da comprendere?
C’era una volta…
C’era una volta una grossa, grossissima società, leader di mercato nel comparto del noleggio. C’era una volta anche un’altra società, anch’essa operativa nello stesso segmento, molto più piccola, ma anche molto più disposta a mettersi in discussione e a domandarsi cosa avesse in serbo il futuro.
La piccola azienda pronta a mettersi in discussione aveva avviato una serie di modifiche nel proprio sistema di distribuzione; poi, lentamente, iniziò anche ad estendere i propri interessi verso nuovi servizi. Intanto, la grande azienda leader di mercato continuava a crogiolarsi nella propria grandezza, sempre più convinta che mai nessuno avrebbe potuto buttarla giù dal suo piedistallo.
Passarono i mesi, gli anni, e il mercato stava lentamente, ma inesorabilmente mutando. La gente aveva gradualmente perso l’abitudine del noleggio, ma la grande società continuava a dirsi convinta che mai nessuno avrebbe potuto scalfirla. Eppure i suoi negozi avevano iniziato a registrare bilanci in rosso, poi a chiudere. Il primo, il quinto, il centesimo, il millesimo… A un certo punto, la grande società si rese conto che non era più poi così grande. E qualche mese dopo ancora, non era più neppure una società: era fallita.
E la piccola società nel frattempo? Sono sicura che la piccola società di cui parlo la conoscete bene, molto bene: si chiamava, e si chiama Netflix. La grande società invece? Se non siete troppo giovani, conoscete anche quella: si chiama, si chiamava Blockbuster.
What else?
Cogliete l’occasione!
Se vogliamo trarre una morale – e noi vogliamo trarre una morale – è che il cambiamento in sé non è un bene né un male, ma è qualcosa di fisiologico, di naturale, di inevitabile. Altro e tanto inevitabile, però, è accogliere la logica dell’adattamento, necessaria per chiunque desideri sopravvivere; vale nel mondo aziendale, in quello del lavoro e persino nel regno animale: possiamo adattarci al cambiamento, sopravvivere e magari uscirne anche più forti di prima, oppure possiamo rifiutarlo, come fecero il mammut, la tigre della Tasmania e il cervo gigante: avete mai visto uno di questi esemplari? Ecco.